Oscar Romero

L’intervento di oggi è il primo di carattere agiografico. Agiografico non solo perché parla di un uomo, Oscar Arnulfo Romero, per il quale è in corso un processo di canonizzazione e che è già stato riconosciuto come martire dalla Chiesa Anglicana. Sarà agiografico soprattutto perché la storia che narra, assolutamente reale, ha tutto l’aspetto delle antiche agiografie, dove la vita del santo segue un andamento didascalicamente ben definito e forse anche prevedibile: un’esistenza ordinaria in principio, un punto di svolta (la conversione), la vita rinnovata e, molto spesso, il martirio finale.
La storia comincia nel 1917, quando Oscar Romero nacque nello staterello centroamericano di El Salvador, da famiglia non illustre. A 25 anni Oscar fu ordinato sacerdote e intraprese una serie di viaggi in Europa e in America Latina, per infine tornare nel proprio paese e lì svolgere il proprio ministero. Era un tipico prete del suo paese, di orientamento vagamente conservatore e ben lungi dal lasciarsi influenzare dalle correnti di sinistra della teologia della liberazione.
La sua fama crebbe per via del suo impegno e, col sostegno della Chiesa tradizionalista, divenne prima vescovo (era il 1970) e poi, con grande delusione dei progressisti che supportavano un altro candidato, arcivescovo primate di El Salvador. Era il 23 febbraio del 1977 e il regime autoritario filoamericano, che all’epoca governava il paese col pugno di ferro e mediante il massiccio impiego degli squadroni della morte contro contadini e oppositori, riteneva di aver trovato in lui un valido alleato.
Come nelle più classiche agiografie, quando la vita mondana del protagonista raggiunge il proprio apice, quando sembra che si sia giunta la stabilità e che ogni cosa è al suo posto agli occhi del Secolo, ecco che c’è il punto di svolta, la Conversione. Quella di Oscar Romero avvenne il 12 marzo del 1977.
Il fronte di opposizione al regime comprendeva all’epoca molti sacerdoti, spinti dagli ideali evangelici di povertà e umiltà ad abbracciare la teologia della liberazione, alcuni di loro imbracciando le armi, altri predicando la resistenza e il riscatto sociale. Rutilio Grande, gesuita e amico dell’arcivescovo, faceva parte della schiera di questi predicatori e per questa ragione venne assassinato insieme a due contadini dagli squadroni della morte.
L’omicidio del gesuita ebbe l’effetto di far prendere a Romero una posizione forte contro il governo, che nel frattempo boicottò le indagini e lasciò impuniti gli assassini. Allora cominciò il suo impegno a favore dei poveri del suo paese, dei campesinos (contadini) privi di diritti e vittime delle ingiustizie sociali e delle bande armate dilaganti. Predicava contro gli omicidi politici, contro la pratica dei desaparecidos e le costanti violazioni dei diritti umani da parte dei paramilitari.
Il suo nuovo impegno, però, gli procurò ben presto l’ostilità del potere che immediatamente cominciò a fare di tutto per ottenere la sua destituzione. Dal Vaticano giunsero visite apostoliche per ispezionare ogni dettaglio della sua vita privata, la gerarchia cominciò a isolarlo e gli appelli a Paolo VI non migliorarono di molto la situazione. Alcuni vescovi salvadoregni, inoltre, lo accusarono di essere la causa della violenza per via del suo mancato sostegno al governo autoritario.
Mentre il regime diveniva sempre più violento, Romero resisteva: la pace, diceva, non è equilibrio tra forze contrapposte; la pace è frutto della giustizia. In un’omelia affermò: «È inconcepibile che qualcuno si dica cristiano e non assuma, come Cristo, un’opzione preferenziale per i poveri. È uno scandalo che i cristiani di oggi critichino la Chiesa perché pensa “in favore” dei poveri. Questo non è cristianesimo!».
L’impegno ostinato e il sempre maggiore isolamento lo esposero personalmente alle ire del Regime che non vedeva l’ora di liberarsi dello scomodo prelato. La parabola agiografica, discendente agli occhi del mondo, ascendente in un’altra prospettiva, si avvicinava così al suo termine, mentre le porte dei potenti si chiudevano davanti all’arcivescovo in cerca di aiuto per la propria gente.
Nell’agosto del 1979 Oscar Romerò si recò a Roma per cercare di portare la propria battaglia a conoscenza di papa Giovanni Paolo II, sperando in un suo aiuto, in un po’ di conforto. Il Pontefice, invece, gli concesse udienza solo con mille difficoltà, trattandolo freddamente e dimostrando insensibilità davanti al triste elenco dei sacerdoti e dei contadini massacrati dagli squadroni della morte. Infine, ultima beffa, la persona che doveva essere il massimo pastore della Chiesa universale, colui che – nell’immagine evangelica – darebbe la vita per il proprio gregge, consigliò all’arcivescovo di non esporsi, di tornare nei ranghi e di sostenere e di collaborare col governo delle stragi: era il comunismo il nemico da combattere, non i suoi avversari!
Ancora più solo, Romero tornò in El Salvador e lì subì ancora intimidazioni e attacchi. A metà marzo del 1980 si disse certo del proprio omicidio, ma non per questo allarmato: se anche lo avessero ucciso, diceva, sarebbe sempre sopravvissuta la coscienza del popolo per gli orrori subiti. Un popolo, affermava, non lo si può uccidere.
Nonostante i sabotaggi e le minacce, il prelato continuò a lottare fino alla fine, incitando i poliziotti alla disubbidienza e i soldati all’insubordinazione, pregando per la solidarietà e l’unità della gente davanti alle atrocità subite. Nulla però si fermava e, anzi, la repressione diventava di giorno in giorno più accanita.
La storia, quindi, arrivò al suo epilogo il 24 marzo del 1980, quando durante la messa, nel momento culminante della consacrazione, Oscar Romero fu assassinato da sicari del governo. Al suo funerale, disertato dal Papa, i militari attaccarono la folla uccidendo quaranta persone e ferendone duecento.
Terminò così l’esistenza terrena di Oscar Romero, presto divenuto un’icona del popolo salvadoregno e della lotta contro le oppressioni. Senza alcun riconoscimento ufficiale da parte della Curia romana, la sua gente (Chiesa nel senso più genuino del termine, l’assemblea riunita nel nome di Dio) lo ha riconosciuto come santo e ritenuto degno di venerazione. Santo perché, come avveniva nei primi secoli del cristianesimo, della sua salvezza non è possibile dubitare; santo perché, finché rimase in vita, tra il conformarsi e l’essere di esempio scelse la via più santa. Per questo ora è per molti San Romero d’America.

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E’ evidente che questo blog è in stato di abbandono: dato che è insensato tenere due blog contemporaneamente per scriverci le stesse cose, gli aggiornamenti sono costanti qui, mentre in questo blog importo ogni tanto ciò che ho già pubblicato.

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Flores d’Arcais e la difficoltà di essere democratici

Il Fatto Quotidiano è un giornale nato dichiaratamente per lottare contro la censura: ospita le firme più censurate d’Italia, pubblica notizie e reportages scomodi e fa le pulci al potere (di tutti i colori) decisamente più spesso degli altri quotidiani. Anche Paolo Flores d’Arcais è sempre stato un attivissimo opinionista sostenitore della libertà di manifestazione del pensiero, che ha anche fatto del tema uno dei cavalli di battaglia del suo periodico Micromega.
Questo articolo è uscito sul quotidiano suddetto, con firma del giornalista appena menzionato, e credo che nessun lettore minimamente informato se ne sia stupito. E’ infatti un articolo molto critico nei confronti del Papa che non si concentra tanto sul contrapporre alle dichiarazioni pontificie argomenti ad esse contrari, ma condanna le affermazioni di Benedetto XVI senza appello e le definisce un tentativo di imporre la teocrazia all’intero mondo democratico. Ovvero, il pezzo è esattamente ciò che la maggior parte dei lettori di Flores d’Arcais e de Il Fatto si aspettava e voleva leggere.
Un articolo anticlericale di questo opinionista non è una notizia. Non è nemmeno una notizia che un pezzo del genere esca su questo determinato quotidiano. Degno di nota, invece, è che le colonne de Il Fatto ospitino non una risposta argomentata alle opinioni dell’avversario, ma piuttosto la pretesa che l’avversario taccia, perché il solo fatto che Benedetto XVI esprima il proprio pensiero sarebbe incompatibile con la democrazia (l’enfasi è dell’originale). Dunque non siamo davanti ad un pensiero, ma davanti alla negazione della libertà d’espressione pubblicata in bella mostra nella pagina web del giornale che della libertà d’espressione fa la propria ragione di vivere!
Assurdo, si potrebbe pensare, e infatti alcuni lettori nei commenti hanno osservato come la linea editoriale cambi radicalmente ogni volta che il giornale tratta di faccende ecclesiastiche. La maggior parte dei visitatori, invece, fa professione di piena condivisione dei contenuti e dei toni di Flores d’Arcais, segno che forse gli antiberlusconiani non si distinguono poi tanto dal nemico che dicono di voler abbattere. Diceva Gaber, non temo Berlusconi in sè, temo Berlusconi in me
Per concludere, preciso che condivido poco le dichiarazioni del Papa riportate dal giornalista: sono tesi che Benedetto XVI ha ripetuto infinite volte nei suoi anni di pontificato e che sono destinate ad avere sulla stampa una visibilità superiore rispetto a tutto il resto che afferma. Tuttavia proprio perché non le condivido pretendo che siano rese note, in quanto solo rendendo nota una tesi è in seguito possibile aprire un dibattito su di essa e anche confutarla. L’idea che basti eliminare dalla scena pubblica delle voci per annullare quello che dicono è stata ormai confutata dalla Storia.

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Piccoli piromani crescono, ovvero Calderoli e la semplificazione

Calderoli torna alla carica con un’altra delle sue mirabolanti imprese, almeno così afferma il capogruppo dell’Italia dei Valori Massimo Donadi. Tutti si ricordano il leghista quando firmò il Porcellum negli ultimi scampoli della XIV legislatura e quando poi lo definì senza mezzi termini una porcata. Molti si ricorderanno anche le sue magliette blasfeme sfoderate in diretta TV che provocarono scontri di piazza e l’ennesima figuraccia internazionale dell’Italia di B. Qualcuno rammenterà infine il rogo che organizzò tempo fa, affermando di aver bruciato, abrogandole, centinaia di migliaia di leggi inutili (cifra inverosimile: non sono mai state promulgate così tante leggi nella storia nazionale!), saltando a piè pari tutti i passaggi parlamentari perchè – si sa – basta dare fuoco ad un testo stampato da internet per privarlo di valore legale…
Ora pare che Calderoli, in qualità di ministro per la semplificazione, abbia dato qualche altra sforbiciata a caso alla nostra legislazione abrogando un regio decreto del 20 luglio del ’34, di cui forse non aveva compreso esattamente la funzione. Questa volta non ha operato con la diavolina, ma servendosi del decreto legislativo 212 dello scorso dicembre. Il problema è che la legge inutile eliminata era quella che istituiva e regolava il tribunale dei minorenni.
C’è chi sostiene che il disonesto, colui che danneggia gli altri per avvantaggiare se stesso, sia da preferirsi all’incapace, la persona che fa disastri per errore: il primo ha sempre dei limiti, il secondo no. Calderoli, che ha già dato prova in passato di incompetenza, rischia dunque di superare Berlusconi e Ghedini nell’arte della distruzione della macchina della giustizia italiana.
Rischia, perché il ministro afferma che siamo davanti ad un falso allarme: non avrebbe sbagliato lui a sforbiciare, ma solo la Gazzetta Ufficiale a riportare correttamente l’allegato al suo decreto, tanto che sarebbe già uscito l’altro giorno un errata corrige. Per quanto sia incredibile, ci auguriamo che sia vero.

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Il nuovo grande schermo di Berlusconi e Benetton

Berlusconi e Benetton si sono messi insieme e hanno creato The Space, il nuovo colosso dei cinema italiani. The Space è controllato al 49% da Medusa (cioè Biscione) e dal 51 da 21 Investimenti, di Alessandro Benetton con associata Fininvest. L’alleanza, dunque, controlla tutte le sale della Medusa, quelle di Warner Village, quelle di Cinecity (Cagliari, Padova, Parma, Trieste, Udine e, per la mia gioia, Treviso), più altre catene locali meno importanti.
La quota di mercato su scala nazionale adesso è stimata al 21%, ma l’obiettivo pare essere il 25, ovvero un quarto di tutti i biglietti venduti. Notizia che potrebbe lasciare indifferenti, se non fosse che questo operatore non è una semplice società di gestione delle sale cinematografiche, ma, con Medusa Film e Medusa Distribution, controlla anche la produzione e la distribuzione di molti tra i principali film italiani e stranieri.
Il rischio dunque è che questo trust che si sta venendo a formare comprima il mercato della pellicola, soprattutto sul versante dei film d’autore, prodotti da mayor indipendenti e fuori dal giro dei grandi cinema. Le grandi produzioni, quelle con lo sponsor giusto, avranno una corsia preferenziale (ancora più vistosa di quella già esistente) al cinema, mentre tutte le altre dovranno accontentarsi delle briciole delle programmazioni. I film minori, tra i quali quasi tutti i film impegnati socialmente o politicamente, potrebbero dunque venire relegati ai cinema d’essai e, di conseguenza, le case più coraggiose potrebbero essere costrette a chiudere i battenti.
In più, il fatto che uno stesso soggetto controlli direttamente o indirettamente televisione, distribuzione cinematografico e produzione non può che essere un rischio per lo stato della libertà d’espressione nel nostro paese: per comunicare servono mezzi e cosa accade se tutti i mezzi appartengono ad un solo soggetto, per di più leader politico? Conflitto d’interessi che, proprio mentre la sinistra nega che ne si debba parlare, diventa di giorno in giorno più macroscopico.
I vari garanti del mercato e della concorrenza (le cosiddette autorità indipendenti, di nomina politica) non sembra che abbiano nulla da obiettare e la concentrazione si fa sempre più compatta, sempre più trasversale nei differenti campi. Con Raicinema, 01 (sempre Rai), Mediaset e Medusa in uniche mani smebra ripetersi sul grande schermo quello che è gia successo sul piccolo.

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Napolitano alla Tv tedesca

Servizio del 2004 della televisione tedesca (sottotitolato): il tema erano i rimborsi per le spese di viaggio per gli europarlamentari e Napolitano, allora a Strasburgo, viene interrogato su del denaro (pubblico perché della UE) preso.

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Il Vaticano e la catarsi degli scandali

Il Vaticano onora gli impegni presi con l’Unione Europea ed emana la nuova disciplina sulla trasparenza finanziaria. Con un Motu Proprio (l’equivalente di un decreto) il Papa ha istituito un’autorità indipendente che dovrà vigilare sui flussi di denaro, raccogliere denunce e far rispettare gli standard internazionali, ha imposto a tutti i dipendenti degli uffici il controllo sull’attività che si svolge e li ha liberati dal dovere di segreto in caso di irregolarità (si è parlato di Sant’Uffizio finanziario). Il tutto dovrebbe permettere l’ingresso nella white list dei paesi trasparenti.
Dopo la stretta sulla pedofilia, questo è il secondo caso in cui lo scoppio di uno scandalo ha portato ad una revisione in positivo delle farraginose legislazioni ecclesiastiche: se la magistratura italiana non avesse indagato il banchiere dello Ior Gotti Tedeschi, probabilmente tutto sarebbe rimasto nel grigiore della semi-illegalità.
Non può essere che contento chi ha sempre sostenuto che gli scandali dovrebbero essere percepiti come un motivo di riforma della Chiesa e non come degli attacchi al cattolicesimo: la chiusura a riccio e la difesa dello status quo, in queste situazioni, sono motivo di discredito, più che una strategia difensiva.
Non si può ignorare che il pontificato di Ratzinger, cominciato sotto i peggiori auspici, in questo senso sia migliore di quello del suo predecessore. Ragione di ciò è proprio la maggiore debolezza di Benedetto XVI, pontefice poco carismatico, caduto nella trappola della riconciliazione coi Lefebvriani (si ricordi il caso di Williamson), poi nella gaffe di Ratisbona (non voluta, ma è ciò che appare a valere), infine messo sotto accusa per quella che è sembrata una politica di involuzione rispetto ai canoni del Concilio. La scarsa capacità mediatica, infatti, ha permesso agli scandali prima nascosti di esplodere e di avviare un processo catartico senza precedenti.
Quando alla fine solo gli atei devoti e pochi fanatici papisti erano rimasti a negare la pedofilia dilagante, la Curia aveva già cambiato rotta, ammettendo le colpe e cominciando a prendere provvedimenti. E col caso Ior di nuovo, mentre la politica italiana cattolica (o presunta tale) faceva scudo a Gotti Tedeschi, si è adempiuto alle promesse fatte all’Europa sulla trasparenza finanziaria.
Il risultato in termini di immagine sarà senza dubbio rilevante, se in via applicativa si rispetteranno alla lettera le disposizioni: gran parte delle accuse solitamente rivolte alla Chiesa cadranno o dovranno essere ridimensionate. Già ora la base ateo-anticattolica (che trovate scatenata in commenti sui siti de Il Fatto, dei Radicali e dell’UAAR) non riesce che a strepitare che sarebbe tutta fuffa (ma senza argomentazioni) o che saremmo davanti ad uno specchietto per le allodole (anche qui senza spiegare perché ed, evidentemente, senza leggere…).
Se si andrà avanti di questo passo, il pontificato che sembrava iniziare alla volta dell’immobilismo tradizionalista potrebbe trasformarsi in una stagione preziosa per la Chiesa.

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La Repubblica (per distrazione) fa propaganda a Putin

La Repubblica è un quotidiano che pare essere stato colto da schizofrenia: venti giorni fa il suo inserto del Lunedì, Affari & Finanza, pubblicava un reportage sulle relazioni pericolose tra l’Italia e la Russia, mentre ieri se ne esce con un allegato dal titolo di Russia Oggi, di tenore diametralmente opposto.
Sui rapporti tra l’establishment italiano, politico ed economico, con la nuova Russia dell’ex KGB Putin ciò che resta dell’informazione indipendente nel nostro paese ha scritto molto e molto continuerà a scrivere: l’amicizia personale di Berlusconi col suo omologo ex-sovietico è passata alla ribalta delle cronache mondiali, l’ENI è diventata dipendente da Gazprom per le forniture energetiche e (ci svela Report) si trova in una situazione di semi-sudditanza nei confronti del colosso energetico russo e il sospetto degli USA a causa della vicinanza di Roma con Mosca è ormai dichiarato.
Così nessuno avrebbe potuto immaginare che La Repubblica potesse pubblicare un inserto di dieci pagine preparato da Rossiyskaya Gazeta (organo governativo russo) in modo assolutamente acritico. La redazione non pare averlo sfogliato e il direttore (che pure per legge sarebbe responsabile di tutto ciò che viene scritto sul suo giornale) non si deve essere accorto proprio di nulla mentre dava il via libera al suo inserimento nel giornale.
La ragione di tutto ciò sarebbe l’ingresso di questa pubblicazione per mezzo di un inaspettato cavallo di Troia, il New York Times. L’autorevole quotidiano newyorkese, infatti, aveva in precedenza pubblicato (scientemente) quelle pagine su richiesta della Rossiyskaya Gazeta (il regime di Putin si fa buona propaganda all’estero) e il giornale di Ezio Mauro si è limitato a prendere tutto per oro colato e a tradurlo in italiano. Immaginiamo con quale sconcerto di Feltri, Belpietro e Sallusti che non sono riusciti a farlo per primi!
Il nodo del problema non è che La Repubblica abbia pubblicato degli articoli con una linea editoriale opposta alla propria, dando spazio ad una voce governativa russa. Il punto centrale è che La Repubblica abbia pubblicato dieci pagine di giornale senza nemmeno leggerle, senza minimamente accorgersi del loro contenuto e domandarsi della loro origine.
In un paese come l’Italia, dove il deficit informativo è enorme, dove la libera stampa è ridotta a poche riserve indiane e dove i lettori sono sommersi da voci di opinionisti, ma lasciati a digiuno circa i fatti discussi, l’ultima cosa di cui si sente il bisogno sono appunto giornali sciatti e direttori sbadati. La posta in gioco, il raggiungimento di una democrazia adulta, è troppo alta perché i mezzi d’informazione (ovvero gli organi che devono preparare il cittadino politico) possano dimostrare una simile superficialità.

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I mercanti nel tempio o i sacerdoti al mercato?

Ho già avuto modo di scrivere che, se una volta c’erano il Tempio e i mercanti, con i secondi che entravano nel primo per avvantaggiarsi nei propri affari, la nostra epoca moderna ha preferito con molta praticità unificare le due istituzioni. La festa in cui in gran pompa si celebra questa fusione è il Natale.
Si cominciò in sordina, importando la figura di un santo anatolico rivisitato dalla Coca Cola (San Nicola, Sanctus Nicolaus, Santa Claus, Babbo Natale), che col benessere si è affiancato alla Befana (ossia l’Epifania) nella distribuzione di regali ai bambini, superandola rapidamente per importanza. Poi gli anni della crescita economica e dell’abbondanza dei generi di consumo resero universale lo scambio dei doni ed il relativo shopping prenatalizio. Il Natale, così, da religione si è trasformato in tradizione, ovvero in un insieme di gesti e di riti che si ripetono perché si devono ripetere, senza una ragione precisa.
In seguito c’è stata la secolarizzazione e gli elementi caratterizzanti della tradizione del Natale hanno smesso di essere quelli cristiani (che da tradizionali sono tornati ad essere eminentemente religiosi) a vantaggio degli aspetti più mondani, come l’albero, il cenone, i regali e Santa Claus. Il collegamento tra la festa e la fede si è quindi affievolito, così che oggi anche il peggiore mangiapreti taglia il panettone con gioia (quando in passato gli anticlericali, come Mussolini, nei confronti della ricorrenza nutrivano una profonda ostilità).
Le due metà della festa tra loro sono difficilmente compatibili: da una parte c’è il cristianesimo che, almeno nella sua versione cattolica, elogia il pauperismo (“ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.” o “è più facile che un cammello [che poi sarebbe una gomena, per traduttori più accorti] passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, ecc), dall’altra c’è la festa dei regali, che col tempo diventano sempre più costosi (secondo l’ISTAT si spenderebbero in media più di 1300 euro a famiglia per i doni) e che sono completamente svincolati dall’occorrenza religiosa (li fanno e li ricevono anche i non cristiani).
La messa di Natale, parallelamente, è divenuta il palcoscenico giusto per lanciare giaculatorie sul consumismo della nostra società occidentale e sulla secolarizzazione. Si tratta nelle sue versioni più estreme di una vera condanna senza appello dell’aspetto mondano della festa.
Alcuni commentatori cattolici, come Socci,  al contrario scrivono che il consumismo natalizio è pienamente compatibile con la fede cristiana e che, anzi, è sua manifestazione vistosa: i beni terreni – dicono – sono dono di Dio e dovere del cristiano in festa sarebbe goderseli spensieratamente, anche a vantaggio della “nostra economia che soffre di un Pil stentato”. Male fanno, anzi, i preti che condannano consumismo e materialismo, perché così facendo sottrarrebbero spazio alle vere riflessioni sulla fede!
Le idee di Socci in materia, del resto, si inseriscono bene nella mentalità dell’autore che assorbe moltissimi stimoli religiosi provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico, dove, negli USA, Tempio e Mercato si sono saldati dichiaratamente e anche le Chiese si sottopongono al meccanismo della concorrenza e della legge della domanda e dell’offerta (hanno perfino gli spot in TV): non c’è da stupirsi che il fedele-consumatore ritenga più che divinamente giustificato il meccanismo economico col quale è giunto a Dio.
Ma ai fedeli non ancora contagiati da queste nuove idee d’oltreoceano, al fine di evitare la prosecuzione di questa sterile disputa sull’opportunità o meno di ricordare facendo shopping la nascita di Cristo in una stalla, non resta che prendere atto una volta ancora che l’Occidente non è più la Cristianità. Si dovrebbe così riconoscere l’esistenza di due diverse feste del Natale: quella a cui partecipano tutti, qualsiasi siano le loro convinzioni religiose, e che comprende gli addobbi puramente estetici, i regali e il cenone, e l’altra, importante solo per chi crede, con la Natività ed il culto.
Sia ben chiaro che questo non è un auspicio alla dicotomia, ma è semplicemente l’osservazione di ciò che già accade. Prendere atto del fenomeno, però, avrebbe l’indubbio vantaggio di permettere alla seconda festa di riacquistare la dignità che ha perso da quando, mescolata alla prima, si è ridotta ad essere un semplice spazio mentale del credente.

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Il reverendo Jones, alcuni hooligans in politica e qualche sigla neonazista

L’English Defence League è un’organizzazione islamofoba inglese con molti emulatori in giro per il mondo: le sue finalità sono il reclutamento di nemici dell’Islam di tutte le estrazioni sociali, politiche e culturali, la promozione dell’odio verso i musulmani e il sostegno allo Stato di Israele (considerato il nostro baluardo contro la minaccia islamica). Le sue schiere, però, sono reclutate più che altro tra i tifosi di calcio delle curve, ritenuti una forza d’urto di discreta efficacia nelle manifestazioni (spesso violente) per la loro capacità organizzativa e per il loro talento innato nell’urlare slogan e nella devastazione delle aree urbane.
Ospite d’onore di un’assise dell’EDL sarebbe dovuto essere il famoso reverendo Terry Jones, il leader di un gruppo cristiano-evangelico la cui teologia è così semplicemente riassumibile: gli USA sono la nazione eletta da Dio (come i biblici israeliti), Dio è arrabbiato con gli USA per i peccati degli americani, Dio fa andare male le guerre degli USA e fa morire i soldati americani. Nemici per elezione di Jones sono gli infedeli musulmani, ragione per cui il pastore passò alla ribalta delle cronache per la sua minaccia, poi eseguita, di bruciare in un sol giorno Corano e bandiera statunitense.
In seguito alle proteste dei gruppi antirazzisti, anche considerati gli episodi di violenza che avevano visto protagonista l’EDL in precedenti sue manifestazioni, l’invito al reverendo è stato ritirato da parte dell’organizzazione omofoba (la motivazione ufficiale è che si sarebbero scoperte le sue dichiarazioni omofobe e razziste!). Altri gruppi inglesi di estrema destra, invece, sembrano interessati a poter far parlare nel corso dei propri convegni Jones, prova di come all’insegna dell’odio verso il nemico comune (l’Islam), le differenze tra razzisti filoisraeliani, predicatori evangelici e neonazisti diventino all’improvviso molto labili.
Lo scopo del mancato incontro di Jones con gli ex-hooligans dell’English Defence League, a detta del leader Tommy Robinson, sarebbe stata una discussione sulla malignità dell’Islam, religione medievale, nella società inglese odierna. La mobilitazione degli anti-estremisti ed il rischio di un diniego del visto per il pastore a causa dei probabili problemi di ordine pubblico hanno spinto il gruppo a desistere.

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